La Londra di Shakespeare
Per convenzione storica il 23 aprile si festeggia la nascita di William Shakespeare avvenuta a Stradford-upon-Avon 450 anni fa, lo stesso giorno in cui mori’ ( e questo lo si sa per certo) 52 anni piu tardi.
Cosa si puo’ aggiungere agli oceani di inchiostro usati per parlare di lui? Nulla che non sia gia’ stato detto più eloquentemente, più sapientemente, più profondamente da molti altri, a partire dai suoi contemporanei fino ai giorni nostri.
Chi lo ha sminuito come il primo critico letterario inglese, Samuel (Dr.) Johnson nel ‘700, che lo accuso’ di non rispettare le tre unita’ aristoteliche nei suoi lavori, chi lo esalto’ come Bardo di immaginazione e universalita’ inimmaginabili come il poeta romantico Coleridge, chi lo ha soppesato parola per parola come il nostro Melchiori fino a chi ha studiato ogni sua parola come il grande David Crystal facendone un monumento linguistico.
Sta di fatto che lui, il nostro William, ha reinventato la lingua inglese, forgiando nuovi vocaboli e nuove espressioni che sono diventate idiomatiche e che ancora oggi sono in uso. Chi piu’ di lui? Nessuno.
Ma non e’ al suo genio indiscusso che questa ricorrenza ci fa pensare, quanto piuttosto alla sua Londra, alla relazione coi suoi personaggi, a come deve aver vissuto, immaginando e fantasticando sui dati storici oggettivi e su quelli meno evidenti.
Tanto per cominciare la Londra che Shakespeare ha conosciuto era piena di contraddizioni. La nuova ricchezza della corte di Elisabetta prima e di Giacomo poi, era del tutto nuova per l’Inghilterra che viveva un periodo di prosperita’ che non aveva precedenti. Era un Paese dove i pirati venivano ammessi a corte e diventavano favoriti della regina, scrivevano trattati e poesie, navigavano, depredavano ed esploravano per conto della corona, fondando colonie in nome della fulgida Albione nelle Indie Occidentali.
Era un Londra indaffarata, il Tamigi che l’attraversa era ricettacolo di scambi e traffici, interni ed esteri, nelle sue acque fluivano tutte le scorie delle migliaia di abitanti, tintori e lavandaie, macellai e fabbri, maniscalchi e panettieri, birrai e stallieri. Tutti attingevano e tutti versavano nel fiume.
In quell’ansa del Tamigi, la “south bank”, la vita brulicava. In pochi passi si potevano trovare i teatri, le cosiddette “playhouses“, e almeno 200 taverne ed altrettanti bordelli.
A teatro ci andavano tutti, era l’attrazione ed il divertimento piu’ popolare e disponibile per tutte le borse. La bandiera sventolava sul tetto e centinaia di persone si riversavano nei vicoli alle porte dei teatri per assistere ad un nuovo spettacolo. Il biglietto piu’ economico costava come una pinta, e anche mille persone potevano stare in piedi davanti al palcoscenico del Globe, il teatro di Shakespeare. Li chiamavano i “penny stink“, la puzza del penny, perche’ appartenevano a quella popolazione che mangiava, beveva e faceva i propri bisogni sul posto, senza ombra di ritegno e che vedeva il bagno una volta all’anno. Erano quelli che partecipavano all’azione degli attori come se anche loro ne fossero a pieno diritto coinvolti. Uova e verdure varie venivano lanciate se il testo o il personaggio era poco interessante o se era il fellone di turno.
A volte gli attori che recitavano le parti dei “cattivi” venivano inseguiti e battuti come se non fossero diversi dai personaggi che interpretavano. A teatro si prendevano pulci e pidocchi, anche tra i piu’ fortunati nelle gallerie, trasmessi spesso dai cuscini che si noleggiavano per attenuare la rigidita’ del legno delle panche. A volte il teatro si incendiava durante la scena di una battaglia o per l’entusiasmo del pubblico. Le scene di duelli e scazzottate arrivavano in mezzo alle file degli astanti ed il silenzio era conquistato solo nei momenti piu’ commoventi delle tragedie o di incanto nelle commedie.
Era uno spettacolo nello spettacolo, vissuto intensamente da tutti, dentro e fuori le mura del teatro. Le varie compagnie si facevano una terribile competizione per guadagnarsi il favore dei comuni e di nobili. La regina Elisabetta, e anche il suo erede, re Giacomo, spesso richiedevano il lavoro di Mastro Shakespeare o di altri suoi contemporanei.
E’ più o meno questa la scena su cui ”andava in scena” non solo il teatro di Shakespeare ma tutta la Londra del tempo.
Atto Quinto. Scena Quinta
Piazza presso l’abbazia di Westminster
Entra Re Enrico Quinto in corteo uscendo dall’abbazia; tra il seguito il Giudice Supremo
– Falstaff – Iddio protegga Tua Maestà, re Hal!
– Pistola – I cieli ti proteggano e conservino, regalissimo figlio della gloria!
– Falstaff – Dio ti salvi, soave ragazzo mio!
– Re – (Al Giudice Supremo)Lord Giudice Supremo, parlate voi a quel vecchio vanesio.
– Giudice – (A Falstaff) Sei tutto in senno? Sai quello che dici?
– Falstaff – Mio Re, mio Giove, parlo a te, cuor mio!
– Re – Non ti conosco, vecchio. Cadi in ginocchio e prega Dio per te, ché una testa canuta mal s’addice a uno stolido buffone… Per troppo tempo mi son figurato, come in sogno, un soggetto come te, così ingrassato dalla gozzoviglia, così vecchio, sboccato, senza scrupoli! Ora però son desto e quel mio sogno tengo in gran dispregio. D’ora in avanti fa’ di perder corpo ed acquistare in peso di virtù; lascia i bagordi, e pensa che la tomba che s’aprirà per ricevere te sarà il triplo più ampia che per gli altri. Non rispondermi adesso, come al solito, con un lazzo da stolido buffone; non t’illudere ch’io sia quel che ero; Dio sa, e il mondo lo saprà assai presto, che ho ripudiato quel primo me stesso, come ripudierò allo stesso modo coloro che mi furono compagni. Quando udrai ch’io sia quel che sono stato, allora puoi riavvicinarti a me ed esser quello che sei sempre stato: maestro e mentore dei miei stravizi. Fin allora, però, ti metto al bando, sotto pena di morte, come ho già fatto con tutti quegli altri che sono stati miei pervertitori; e t’ordino di rimaner lontano le dieci miglia dalla mia persona. Ti farò assegnare un vitalizio ché l’indigenza non abbia a costringerti ad altre malefatte. E se sapremo che avrai riabilitato i tuoi costumi, ti potremo accordare anche un incarico conformato alle tue capacità.
(Al Giudice Supremo)
Affido a voi, signore, il compito di dare esecuzione a queste mie parole. Si prosegua.
Esce in corteo con tutto il seguito
– Falstaff – Mastro Zucca, vi devo mille ghinee.
– Zucca – Eh, sì, perdio, Sir John; anzi, vi prego di darmele subito, che le riporto a casa
– Falstaff – Questo mi sembra adesso un po’ difficile, Mastro Zucca. Ma non v’impressionate per questocdi; lui mi manderà a chiamare in privato. È costretto a far così, capirete, per gli occhi della gente… Non vi angustiate per la promozione; sarò ancor io colui, non dubitate, che potrò far di voi un pezzo grosso.
– Zucca – Non vedo proprio come: ammenoché non mi diate, da mettermela addosso, la vostra giacca imbottita di paglia. Perciò, Sir John, da bravo, ve ne prego, ridatemene almeno cinquecento delle mie mille.
– Falstaff – Egregio mio signore, la mia parola è buona quanto me. Tutto quello che avete visto e udito è soltanto colore.
– Zucca – Sì, un colore, del quale, temo, mal v’imbratterete.
– Falstaff – Non fatevi paura dei colori, e venite a pranzare insieme a me. Luogotenente Pistola, Bardolfo, venite. Prima che si faccia notte, vedrete che mi manderà a chiamare.
Rientrano il Principe di Lancaster e il Lord Giudice Supremo con alcune guardie.
– Giudice – (Alle guardie) Portate Sir John Falstaff alla “Flotta” e insieme a lui tutta la sua combriccola.
– Falstaff – Ma signore!… Ascoltatemi, signore!… –
– Giudice – Qui non posso indugiare ad ascoltarvi. Vi sentirò più tardi.
(Alle guardie) Via, scortateli.
– Pistola – “Se fortuna me tormenta speranza me contenta”
Falstaff e compagni sono portati via dalle guardie